Il mal di schiena è una delle patologie più frequenti in ambito muscoloscheletrico: si stima che circa l’80% della popolazione soffra almeno una volta nel corso della vita di lombalgia, e il 20% una volta all’anno, con percentuali maggiori tra le persone in attività lavorativa.
Tendenzialmente un dolore acuto passa spontaneamente nel giro di un mese; tuttavia, in una piccola percentuale di popolazione, questo non succede e il dolore tende a diventare cronico, ossia a protrarsi per oltre 3 mesi nonostante la patologia che lo ha causato sia guarita.
Il dolore acuto (“immediato”) può essere causato da un danno ai tessuti e trasportato centralmente alle regioni responsabili dell’elaborazione del dolore (dolore nocicettivo, dalla periferia al centro), come succede per esempio se ci bruciamo o procuriamo un piccolo trauma. In questo caso, normalmente, il dolore si risolve quando si risolve la sua causa, cioè il danno alle strutture coinvolte.
Il dolore cronico, invece, è un’esperienza sensoriale ed emozionale complessa. A seguito di una lesione o malattia si instaurano infatti modificazioni biologiche, psicologiche e sociali che complicano il quadro clinico, tanto che a un certo punto risulta difficile ritrovare la causa iniziale e distinguere i diversi meccanismi alla base del dolore.
Sovente le soglie del dolore si abbassano e stimoli anche non dolorosi vengono percepiti come tali. Anche a livello cerebrale si ampliano le aree deputate a raccogliere queste informazioni dalla periferia. Tutto il corpo si mette in una situazione di difesa, un po’ come un sistema di allarme esageratamente sensibile, che inizia a suonare anche in assenza di un reale pericolo.
Quando il dolore diventa cronico si accompagna anche a sintomi ansiosi e depressivi: si fatica a sopportare la propria condizione, spesso si pensa continuamente al proprio dolore, ritenendo che nulla possa risolverlo. Si parla allora di “catastrofizzazione”, un po’ come se si vedesse tutto nero, e questo contribuisce a trasformare il dolore in cronico: qualcosa che diventa abituale e non se ne va.
Come supportare allora questi pazienti? “Secondo anche l’evidenza in letteratura, la risposta migliore è la fisioterapia attiva, ossia con esercizi specifici – spiega la dott.ssa Giulia Rebagliati, fisiatra di Isico – È importante da parte dello specialista valutare col paziente i meccanismi e fattori che favoriscano il mantenimento del dolore grazie ad un approccio di tipo cognitivo comportamentale: insieme si sostituiscono i pensieri ricorrenti e poco corretti a schemi più funzionali all’elaborazione del dolore e del movimento”.
Certo perché come sottolinea la nostra fisioterapista Martina Poggio: “Se non vengono valutati i fattori biopsicosociali che possono concorrere al mantenimento del dolore è difficile per il terapista definire un trattamento realmente efficace e duraturo nel tempo insieme al paziente”.
Proprio di recente è stato pubblicato un articolo interessante (Ashar YK, Gordon A, Schubiner H, et al. Effect of Pain Reprocessing Therapy vs Placebo and Usual Care for Patients With Chronic Back Pain: A Randomized Clinical Trial. JAMA Psychiatry. 2022) su questo tema così articolato, dove gli autori hanno verificato l’efficacia di un trattamento psicologico di rielaborazione del dolore (PRT), che lavora sulla reinterpretazione delle credenze dei pazienti sull’origine e mantenimento del dolore stesso.
I ricercatori hanno studiato 151 soggetti tra i 21 e i 70 anni con mal di schiena per almeno metà dei giorni degli ultimi 6 mesi, di una media intensità (punteggio almeno 4 su 10, dove 0 è assenza di dolore e 10 il massimo sopportabile). I soggetti sono stati poi divisi in tre gruppi in modo casuale.
Il gruppo che ha lavorato sulla rielaborazione del dolore è stato sottoposto ad una valutazione in telemedicina e una sessione educativa di un’ora, in cui il paziente è introdotto al concetto di dolore come “falso allarme” generato dall’encefalo. I pazienti hanno poi partecipato a 8 sedute individuali da 1 ora con uno psicoterapeuta esperto in rielaborazione del dolore, in cui si rivalutava la sensazione dolorosa da seduti o durante le posizioni o i movimenti temuti, e si usavano tecniche per la gestione di emozioni positive per affrontare minacce che potenzialmente amplificano il dolore.
Il gruppo placebo ha visto invece due video in cui si descriveva l’effetto positivo del placebo sul dolore (ad esempio come questo può attivare automaticamente la risposta di guarigione naturale del corpo). Un medico poi somministrava un’iniezione sottocutanea con soluzione salina nel punto di maggior mal di schiena.
Il gruppo Terapia tradizionale invece proseguiva le cure che stava facendo senza aggiungere nulla (veniva solo consegnato un libro sul dolore a fine trattamento).
Che cosa è successo? Il gruppo che ha lavorato sulla rielaborazione del dolore ha riscontrato grandi riduzioni dell’intensità del dolore cronico rispetto ai due gruppi di controllo. I benefici sono stati mantenuti anche a 1 anno di distanza, tanto che il 73% ha riferito di non avere più dolore o quasi post-trattamento.
A che cosa sono dovute queste differenze e perché ci sono questi benefici?
“La terapia adottata prende di mira il dolore, cercando di modificare le convinzioni dei pazienti sulla sua origine e pericolosità – spiega la dott.ssa Irene Ferrario, psicologa di Isico – Il percorso di rielaborazione del dolore ha permesso ai partecipanti allo studio di ridefinire la sensazione dolorosa come un fenomeno reversibile e non una reale minaccia causata da una lesione o da una patologia periferica, controllabile attraverso il sistema nervoso centrale. Questa tecnica si basa su modelli di trattamento psicologico esistenti come interventi cognitivo-comportamentali e interventi basati sull’accettazione e sulla mindfullness (consapevolezza di sé). Migliora così la gestione o l’accettazione del dolore: lo specialista aiuta il paziente a rendersi conto che le attività dolorose non sono obbligatoriamente dannose e sulla rivalutazione delle sensazioni dolorose e delle loro cause”.
Nel percorso riabilitativo fisioterapico è indispensabile che medico e paziente valutino insieme i meccanismi del dolore, gestendo le situazioni che potrebbero cronicizzarlo, come convinzioni errate, paura del movimento o catastrofizzazione. In alcune situazioni più complesse il supporto di uno psicologo, che lavori in team con medico e fisioterapista, può essere importante per contribuire a una identificazione delle cause del dolore e a un suo successivo superamento.