Giugno è il mese della scoliosi, contraddistinto da un fiocco verde. In queste settimane stiamo condividendo sui nostri social immagini, video e testimonianze per ricordarlo. Oggi è il momento per un racconto che ha vinto il nostro Concorsetto nel 2019. Un testo, scritto da un giovane paziente, Leonardo Vener, intitolato “L’uomo di latta”.
Qui di seguito un estratto, potete leggere il testo integrale sul sito www.concorsetto.it
“Era giugno quando iniziai a portare il corsetto per la schiena. Il giorno del collaudo era stato un disastro, ma solo perché io lo avevo catalogato così. Quando lo indossai per la prima volta e uscii dalla sala d’aspetto per provarlo sentii due dolori. Uno era fisico, evidentemente era necessaria qualche modifica. L’altro era diverso. Una volta uscito mi guardai riflesso nella finestra della struttura e mi osservai per la prima volta con il corsetto addosso. Nella finestra vidi che ero diverso e diverso voleva dire male, visto che mi piaceva come ero prima. E allora pian piano notai attraverso la mia immagine che stava cambiando anche altro, una lacrima era in caduta libera sulla mia guancia, poi un’altra la raggiungeva, forse per aiutarla invano, e così via, una dopo l’altra. Era un suicidio di lacrime. Probabilmente fu il mio primo vero pianto e ancora oggi mi vergogno di averlo sprecato così, anche perché odio piangere.
… Il primo periodo di indossamento non fu affatto facile. Per prima cosa dovevo abituarmi a fare tutte le cose che facevo normalmente in un altro modo. Che non vuol dire con una limitazione, anche se lo pensavo all’inizio. Il secondo problema fu l’estate. Quella di due anni fa fu una delle più afose che io ho memoria di aver trascorso. Ancora prima di iniziare la terapia avevo caldo e io non sopporto il caldo. Possiamo dire che avere un corsetto stretto intorno alla schiena con un altro strato di tessuto tra schiena e bustino, necessario perché la plastica non stia a contatto con la pelle, non aiuta. Non aiuta per niente.
“La mia scoliosi è stata come il passaggio di un bambino su un puzzle, senza preavviso e catastrofico. Mentre cercavo di far combaciare tutti i pezzi in modo da comporre il disegno completo, improvvisamente mi sono ritrovato a dover ricominciare da capo, solo che più stanco e quindi con maggiori difficoltà. Io dall’alto del mio ego ho considerato questa ripartenza come un dramma e una tragedia, scordandomi che il bello del puzzle è provare a comporlo e non solo finirlo. Ogni tessera ha il suo valore e la ricerca del suo incastro giusto ci permette di vivere.
Con il corsetto ho capito subito che anche tasselli semplici da piazzare della mia vita dovevano essere rivisti e orientati di nuovo.
“E’ questione di abitudine tranquillo”.
Sì, in parte sì. Col tempo ci si abitua ad allacciare le scarpe senza piegare la schiena. Ci si abitua anche a raccogliere le matite che cadono dal banco. Ci si abitua a giostrare le proprie ore libere, senza corsetto, in modo che si possa ottimizzare il tempo e che tale tempo venga sfruttato nel migliore dei modi. La cosa a cui si fa fatica ad abituarsi è l’idea di averlo addosso.
Non tutti riusciamo a guardare le cose nello stesso modo. D’altronde ognuno ha i proprio occhi per osservare e la propria mente per rielaborare. C’è chi nelle disgrazie riesce a vedere il futuro, e chi nel successo riesce a provare paura. Come quando il freddo abbraccia le strade con il ghiaccio. Qualcuno ha l’ansia di scivolare, qualcun altro si sta già mettendo i pattini. I dottori sono in questa seconda categoria, coloro che nel problema trovano un abbozzo di soluzione.
Così quando ebbero tra le mani le lastre della mia schiena, i miei medici pensarono subito a come cercare di risolvere il problema perché si stavano aggrappando a quel briciolo di speranza, che, con tanti sacrifici, sarebbe stata ripagata. Ma per far sì che tutto potesse iniziare, dovevo aggrapparmi anche io a quella speranza. Mi convinsero a mettere i pattini e ad andare sul ghiaccio. All’inizio mi accompagnarono standomi vicino, per poi lasciarmi andare da solo. Io sto ancora pattinando, anche se traballo un po’. Ogni tanto mi volto indietro e vedo l’uscita che mi invita ad abbandonare tutto. Ma io so che non è ciò che voglio. Io voglio ancora traballare finché non pattinerò con sicurezza e lo saprò fare per tutta la vita.
La prima volta che ho indossato il corsetto di fronte ai miei amici, in particolare ai miei compagni di classe, sono stato preso alla sprovvista. Non sapevo cosa aspettarmi, non volevo che per via di questo mio “cambiamento” mi guardassero in maniera diversa. “Lo hai messo allora, quanto lo devi tenere? Quante ore al giorno lo indossi? Ma ti fa male? …”
Ma non è successo. Naturalmente mi hanno posto numerose domande e io ho risposto tranquillamente e poi sono tornati a comportarsi come sempre con me. E’ grazie a loro che ho capito che nonostante un po’ di plastica attorno rimanevo sempre Leo. Il ragazzo che ride facilmente, il ragazzo che adora il calcio, il ragazzo che prova a impegnarsi a scuola, il ragazzo che pensa molto, il ragazzo che sono. Molte persone perdono di vista loro stessi a causa di ciò che gli succede attorno. Ci si dimentica di quanto si è bravi quando si prende il primo voto rosso. Ci si dimentica di quanto eravamo stati felici e innamorati quando una storia finisce. E a volte anche il cavaliere dimentica il suo coraggio dopo aver salvato la principessa e dopo aver iniziato una vita normale. Ma io non ho scordato nulla di me di prima, perché eliminare non sempre coincide con ricominciare. E io stavo ricominciando.
Quando iniziai la mia terapia la mia storia reale dovette superare un grande dosso. Naturalmente non ero pronto. Un qualsiasi guidatore sa che in prossimità di un dosso bisogna rallentare. Io invece, preso dalla rabbia e dalla confusione, avevo accelerato, perdendo qualche sospensione. Probabilmente viaggiavo talmente veloce che ho preso il volo, come un auto da rally su una rampa, e volando ho abbandonato la realtà cercando nella fantasia ciò che qui non c’era. Poi improvvisamente il volo è finito e sono tornato a terra, con me davanti allo specchio a fare gli esercizi che il fisioterapista mi aveva assegnato. Eppure tutto questo stare sospeso dal resto mi aveva permesso di superare il primo dosso. Allora appena ho scorto il secondo sono andato a tavoletta e ho preso di nuovo il volo. E ogni volta era sempre più bello e col tempo lo schianto diventava meno rovinoso.
Ogni sera mi addormento con gli occhi verso l’alto.
Fisso il soffitto in attesa che crolli e mi lasci così osservare le stelle.
Prego affinché il giorno seguente sia meglio di quello appena finito e affinché il sole squarci anche le ultime nuvole.
Spero che la notte porti via la fatica, lasciando solo l’orgoglio.
Aspetto di diventare grande per poter appoggiare sullo scaffale il mio peluche.
Ma intanto, tolgo sorridendo la ruggine dal mio corpo.
Forza uomo di latta, domani è un altro giorno”.
Leonardo Vener