Eppure il dolore c’è. Quante volte capita di avvertire male senza riuscire a ricondurre a un problema fisico specifico? E sapere senza ombra di dubbio che il dolore non lo stiamo inventando. Più spesso di quanto potremmo ritenere. “Ai miei pazienti spiego allora cosa sia la “sensibilizzazione centrale” – introduce Martina Poggio, fisioterapista di Isico – quando mi guardano stupiti”. Di cosa si tratta? Facciamo chiarezza.
Il dolore è una difesa
Il dolore è un meccanismo di difesa per il nostro corpo perché ci permette di capire se e quando siamo in pericolo. Questo meccanismo può arrivare a non funzionare bene, producendo non abbastanza dolore oppure troppo. Nel primo caso è un problema perché viene a mancare la percezione del pericolo e quindi si corre il rischio di farsi male seriamente. Nel secondo caso, invece, stimoli non dolorosi possono provocare dolore, come un pizzicotto o movimenti normali.
Il dolore eccessivo è causato dai nervi del corpo quando diventano troppo sensibili e si attivano troppo facilmente.
“In una fase iniziale, dopo un trauma, è un evento fisiologico, cioè normale. È il cervello che rilascia delle sostanze chimiche che rendono i nervi più sensibili – continua Martina Poggio – si tratta di un sistema di protezione, come se il cervello aiutasse a ricordare di fare maggiore attenzione con quella zona perché ci siamo appena fatti male. E’ un fenomeno reversibile che passa nel giro di qualche settimana”.
Potrebbe succedere però che questo si prolunghi più a lungo nel tempo, arrivando a modificare proprio la percezione del dolore. In letteratura questo viene chiamato “sensibilizzazione centrale” e viene spiegato come un sistema di allarme domestico settato male e che suona per allarmi inutili.
Il dolore: l’approccio psicologico
Può succedere che dalla periferia vengano dati segnali dolorosi quando non lo sono o che sia, invece, a livello centrale un errore di trasmissione. In altre parole che sia il cervello a modulare in modo errato quanto dolore si percepisce.
“Ormai è risaputo che stress, disturbi del sonno, depressione influenzano in modo negativo la guarigione e favoriscono la cronicizzazione. Per questo motivo nei pazienti cronici è importante andare ad indagare anche tutti gli aspetti psicologici che entrano in gioco – spiega la dott.ssa Irene Ferrario, psicologa di Isico– Inoltre, dai dati presenti in letteratura emerge che anche gli antidolorifici più potenti attualmente sul mercato non riducono il dolore di più del 30-40% in non più del 50% dei pazienti. Il solo approccio farmacologico può non essere sufficiente nella terapia del dolore cronico, ma si rende necessario servirsi anche di approcci psicologici complementari in grado di aiutare i pazienti a gestire il dolore in maniera più adattiva e a comprendere come la relazione che una persona ha con il proprio dolore influenzi l’intensità del dolore stesso e le limitazioni correlate al dolore. Il cervello ha un ruolo chiave nella percezione del dolore ed è solo il risultato di una sua rielaborazione”.
Oltre ad una componente percettiva, infatti, esiste anche una componente esperienziale del dolore che è del tutto personale e soggettiva; entrano in gioco fattori emotivi, cognitivi e socio-culturali che influenzano l’esperienza che facciamo del dolore. Ad esempio, se pestiamo un chiodo, il cervello lo registra come dolore, ma se pestiamo lo stesso chiodo mentre scappiamo da un leone, molto probabilmente il nostro cervello neanche lo registra.
“Per molti pazienti è importante capire qual è la causa reale del proprio mal di schiena, anche se nella maggior parte dei casi è difficile definire se è l’osso, se è l’articolazione, se sono i muscoli o se sono i nervi – spiega la fisioterapista MartinaPoggio – Tante volte è una zona che lavora male e che va rieducata al carico; la spiegazione di come anche il cervello gioca un ruolo determinante è davvero difficile da accettare o da capire. Non significa che il paziente si sta inventando il dolore, ma che ci sono meccanismi molto più complessi che entrano in gioco, che vanno conosciuti e rielaborati se si vuole gestire il proprio mal di schiena”.
Ad oggi tutta la letteratura scientifica è concorde nel dire che il paziente non è il referto di una radiografia o di una risonanza magnetica; avere un’ernia discale non significa nulla se non viene correlata alla clinica e ai sintomi dei pazienti.
“Bisognerebbe smetterla di dire ai pazienti “che brutta schiena che ha signora”, oppure “sembra la schiena di un novantenne” – conclude Martina Poggio – i messaggi negativi non fanno altro che alimentare un circolo vizioso da cui è difficile uscire”.
Alimentare l’idea di avere un corpo rotto, fragile e irreparabilmente danneggiato non fa altro che rendere il dolore ancora più persistente e crea dei condizionamenti nella nostra vita quotidiana.